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Chi investe in crypto, vorrebbe farlo con la propria banca

Le banche italiane che offrono ai loro clienti servizi di investimento in cripto asset, Bitcoin in primis, si contano sulle dita di una mano.

luglio 2025
4 min
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Eppure, una recente ricerca commissionata da CheckSig ha confermato che il 24% degli italiani bancarizzati tra i 20 e i 60 anni di età ha già investito in criptovalute. E un altro 29% ha intenzione di farlo nel prossimo futuro. Un risultato che è rafforzato dai dati ufficiali dell’OAM, che contavano a fine 2024 2,2 milioni di italiani censiti presso i fornitori di servizi legati ai cripto asset, di cui 1,6 milioni detentori attivi. Appena un anno prima, a fine 2023, se ne contavano rispettivamente 1,5 milioni e 1,1 milioni. Un trend di crescita decisamente importante.

E non si tratta di ragazzini che mettono qualche decina di euro su Bitcoin, magari utilizzando la app di qualche neobanca. Il 49% del campione ha investito in cripto asset oltre 10mila euro. E l’interesse verso questa nuova asset class è particolarmente forte non solo tra i giovani, ma anche tra i segmenti più abbienti. Probabilmente, interessati a diversificare il loro portafoglio.

Che cosa si vorrebbe in banca
Lo “sdoganamento” dei criptoasset emerge in modo ancora più palese dal fatto che il 68% del campione si aspetta che la propria banca offra uno o più servizi cripto. Al pari, appunto, di altri prodotti e asset class.
E la percentuale sale a oltre l’80% tra giovani e clienti con un elevato patrimonio. I desiderata riguardano soprattutto conti dedicati, compravendita, consulenza qualificata e gestione della fiscalità. Di nuovo, come accade per azioni, ETF e così via.

Pur di potere accedere a servizi cripto erogati da una banca, un intervistato su due si dice disposto ad aprire un conto presso un altro istituto di pagamento. Il che non vuol dire cambiare completamente banca, ma semplicemente rivolgersi altrove per un servizio specifico, un po’ come accade per i conti deposito o le piattaforme di trading più performanti. Starà poi alla seconda realtà finanziaria, nel caso, provare a convincere il cliente della validità della sua offerta, candidandosi al ruolo di banca di riferimento.

Intanto, gli italiani si accontentano delle alternative presenti sul mercato, in grandissima parte rientranti nella categoria del fintech. Gli exchange restano molto popolari con il 44% degli utenti, ma intercettano soprattutto chi ha investito meno di 10mila euro.

I cosiddetti “custodian”, in cui rientra anche CheckSig, sono stati invece scelti dal 22% dei clienti, con una maggiore preferenza tra chi detiene almeno 50mila euro in cripto asset. Un altro 22% si affida invece alla self-custody, una soluzione tipicamente più comune tra chi segue Bitcoin dai primi passi e ha un minimo di competenze tecniche in più.

C’è, infine, un 18% che ha scelto di esporsi ai cripto asset utilizzando ETF/ETN e altri strumenti finanziari. Una scelta verosimilmente tattica, per cercare di ottenere rendimenti senza attivare un vero e proprio servizio cripto.

Ignorare il mercato cripto sarebbe un errore strategico per le banche, che rischiano di perdere l’opportunità di essere punto di riferimento per la loro clientela anche su questa asset class così particolare. Per questo, entro pochi anni, le banche offriranno servizi come compravendita di cripto, conti di custodia, consulenza, gestione di portafogli e finanziamenti garantiti da cripto-attività. Rispetto a qualche anno fa, questo scenario sembra fantascienza. Eppure, il mondo bancario italiano resta fortemente prudente e si sta tenendo lontano dai cripto asset.

Non sono bastati l’inversione di rotta di Larry Fink di BlackRock, oppure l’ordine esecutivo di Trump che ha creato una riserva strategica americana di criptovalute (di fatto, cessando la vendita di quelle sequestrate, a differenza di quanto si continua a fare in Italia) o, ancora, la diffusione degli ETF su questi asset.

Bitcoin resta un potenziale problema reputazionale: il grande tabù è accostare il brand della banca a uno strumento che nasce per sostituire la finanza tradizionale e che viene ancora accostato alla criminalità informatica e al dark web.

Poco importa che, secondo i dati di Chainalysis, meno dello 0,2% delle transazioni in criptovaluta sia legato ad attività criminali. O che, ironicamente, il massimo successo del Bitcoin sia arrivato proprio con la sua istituzionalizzazione. La vecchia narrativa la fa ancora da padrone.

Il vero rischio, in questo disallineamento tra l’offerta delle banche e la richiesta di una parte della clientela, è che quest’ultima cada in qualche tranello. Non è infatti facile, per un risparmiatore medio, orientarsi in un’offerta fintech piena di brand esotici e nuovi, o maneggiare concetti come Proof of Reserves, attestazioni di sicurezza, coperture assicurative.

In quanti conoscono il Registro degli Operatori Valute Virtuali presso l’OAM? E in quanti sanno distinguere tra criptovalute, stablecoin (pardon: EMT e ART), o le ben diverse memecoin, protagoniste della cronaca delle ultime settimane? Con la fine del regime transitorio MiCAR, a giugno 2025, arriveranno regole comuni e standard per tutti gli operatori. Ma resterà comunque il rischio di finire abbindolati da banali truffatori che cavalcano il trend cripto per promettere mirabolanti rendimenti.